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le telecamere e guardò il nostro autista uscire dalla limousine e venire ad aprirci la portiera.
«Vai prima tu, cara, questo è il tuo pubblico», disse Alex a Susan. Susan si mise il suo cappello rosso da
cowboy. Dopo di che l'aiutammo a scavalcarci e a uscire.
Un boato si levò dai giovani assiepati da un lato e dall'altro delle funi. Si levarono evviva in ogni dove,
all'incrocio più avanti e in mezzo alla strada. Tutt'intorno esplo-devano i flash delle macchine fotografiche.
Susan stava in piedi nella luce sfavillante sotto il cartel-lone e salutava tutti con la mano, poi mi fece
cenno di uscire dalla macchina. I flash mi accecarono un po'. Si levò un altro applauso. I ragazzini si
accalcavano intorno a noi battendo le mani.
Udii un coro di voci gridare: «Jeremy, siamo con te!». «Rimani qui, Jeremy!». E feci una piccola,
silenziosa pre-ghiera di ringraziamento per tutti i progressisti e i pazzi, per i pacifici fricchettoni, e per la
semplice ordinaria tollerante San Francisco che stava qui. Non stavano bruciando i miei libri, in questa
città.
Gridi e fischi venivano da ogni dove. G.G. si prese la sua gran fetta di applausi mentre usciva dalla
macchina.
Dopo di che udii una voce acuta:
« SignoraJeremiah! Eeeh, Signora Jeremiah!». Veniva dalla nostra destra. Con un pastoso accento
italiano conti-nuò: «Ricordi, Cinecittà, Roma! Promettimi un biglietto omaggio!».
Allora un guizzo mi passò dentro la testa. Cinecittà, Roma. Mi girai da destra a sinistra cercando di
localizzare la voce. Il cappotto, l'orribile cappotto di leopardo che avevo appena visto era di Belinda!
Quei tacchi a spillo erano di Belinda. Accento italiano o no, quella era la voce di Belinda!
Allora sentii la mano di G.G. stringermi il braccio.
«Non fare nessun movimento, Jeremy!», mi bisbigliò nell'orecchio.
Ma dov'è, lei?
« SignoraJeremiah! Non vogliono farmi entrare nel cinema!».
Alla porta della stampa! Fissava proprio me attraverso grandi occhiali cerchiati di nero stile Bonnie, con
i capelli tinti castano scuro pettinati lisci all'indietro. E quello era l'orrendo cappotto di leopardo. Due
uomini stavano cercan-do d'impedirle di venire avanti. Lei imprecava contro di loro in italiano. Loro la
spingevano indietro verso le funi.
«Aspettate, un minuto solo», gridò Susan. «Conosco quella ragazza, è tutto a posto, solo state calmi,
d'accordo?».
La folla proruppe all'improvviso in una nuova esplosione di evviva e di gridi. Blair era uscito dalla
limousine sollevando tutt'e due le braccia. Fischi, urli.
Susan procedeva a gran passi verso gli uomini che stavano spintonando Belinda.
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G.G. mi tenne più stretto. «Non guardare, Jeremy!», bisbigliò.
«Non muoverti, Jeremy!», disse Blair sottovoce. Si girava da destra a sinistra per offrire alla folla una
bella panoramica dell'abito da sera color lavanda. In realtà se lo stavano mangiando con gli occhi.
Susan aveva raggiunto la scena della cagnara. Gli uomi-ni avevano lasciato andare Belinda. Belinda
aveva in mano un blocchetto da stenografa e una macchina fotografica attorno al collo. Parlava come una
pazza a Susan in italiano. Parlava italiano, Susan? I poliziotti in borghese della mac-china dietro a noi
lanciavano occhiate in giro mentre anda-vano a unirsi agli altri due, che stavano impalati dietro alle
telecamere proprio vicino alle porte. Dan guardò Belinda. Belinda si lasciò andare a un'altra rumorosa,
stridula tiritera in italiano, lagnandosi verosimilmente della gente alla porta della stampa. Susan annuiva.
Susan le aveva messo il brac-cio sulle spalle e stava chiaramente cercando di calmarla.
«Vai avanti», disse G.G. tra i denti. «Continua a guardarla e i poliziotti saranno tutti su di lei. Muoviti».
Cercavo di fare quello che mi diceva lui, sforzandomi di mettere un piede davanti all'altro. C'era Susan.
Se ne sarebbe occupata Susan. E allora vidi di nuovo gli occhi di Belinda che guardavano proprio me,
attraverso il piccolo groviglio di gente che la circondava, e vidi la sua piccola bocca di bambina
all'improvviso sorridere.
Ero paralizzato. Blair si apriva un varco tra la folla proprio davanti a me e a G.G. Gettava ancora baci
alla folla. Si lasciava volteggiare intorno la mantella.
«Cinque minuti a mezzanotte, signore e signori: l'ora di mettervi il vostro miglior Visone Midnight».
Ancora gridi, fischi, sibili. Ci fece cenno di seguirlo.
«Jeremy, va' alla porta», bisbigliò G.G.
Un altro boato si levò mentre Alex scendeva dalla macchina. Poi ci fu un serio, rispettoso applauso, che
si diffondeva dalla gente tra le funi a quella sui marciapiedi a tutt'e due i lati della strada.
Alex ringraziò annuendo con la testa in tutte le direzio-ni e facendo un lungo, profondo inchino. Poi mi
mise la mano sul braccio e delicatamente mi spinse avanti mentre salutava quelli che si accalcavano.
«No, cara, non sono nel film. Sono qui solo per vedere un film veramente bello». «Sì, tesoro, felice di
vederti». Si fermò per firmare un autografo. «Sì, cara, grazie, grazie, sì, e vuoi sapere un segreto? Quello
è anche il mio film preferito».
I poliziotti in borghese ci guardavano. Non lei, noi. Due di loro cambiarono direzione e proseguirono
verso l'ingres-so. Dan rimase indietro.
Belinda e Susan erano alla porta della stampa. Belinda diede a Susan un bacetto sulla guancia, quindi
entrò.
Tutto bene, lei stava dentro! Lasciai che G.G. spingesse anche me nell'ingresso. Dan e gli ultimi due
poliziotti si fermarono dietro.
Ero così vicino a un collasso cardiaco come mai in vita mia. Anche l'ingresso era intasato, con funi che
transennavano il nostro percorso fino alle porte. Non riuscivamo a vedere bene il lato destro, dove era
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entrata Belinda.
Ma in pochi secondi fummo dentro al cinema vero e proprio. E vidi che l'ultimissima fila della sezione
centrale era stata delimitata per noi. I tipi in borghese sedevano, dall'altra parte del nostro corridoio, nella
fila di dietro della sezione laterale. Dan stava con loro. Le tre file di fronte a noi, chiaramente al centro,
erano già piene di reporter, alcuni dei quali poco prima stavano fuori casa mia. C'erano giornalisti dei
giornali locali, alcuni personaggi dell'alta società magnificamente agghindati, e una quantità di altri scrittori
e artisti del luogo, qualcuno dei quali si girava per chinare leggermente la testa o per fare un piccolo
cenno di saluto. Andy Blatky e Sheila, che avevano avuto i loro speciali biglietti omaggio, erano già là
avanti. Sheila mi gettò un bacio. Andy, più aggiornato, mi salutò col pugno.
E sul lato destro c'era Belinda, che masticava una gomma dopo l'altra e scribacchiava come una matta
sul suo blocchetto da stenografa. Guardò in su, guardò furtivamente noi da dietro gli occhiali, quindi
attraversò la fila vuota della sezione e si piazzò proprio di fronte alle poltrone transennate.
«Signor Walker, fammi un autografo!», strillò con ac-cento italiano. Tutti la guardarono. Ero pietrificato.
Cioè, pensavo di esserlo. Il mio cuore stava per venir meno, ora.
Alex e Blair si erano messi nella fila davanti a me. Perciò avevo a fianco G.G., e lo vidi guardarla con la
faccia pallida, probabilmente spaventato quanto me. Susan stava in piedi nel corridoio tra una fila e l'altra
con i pollici nella cintura.
Belinda si avvicinò proprio a me, con la bocca che masticava gomma a più non posso, e mi piazzò sotto
il naso il catalogo della mostra e una penna a sfera.
Per un secondo non riuscii a far altro che guardare lei, i suoi occhi blu che sbirciavano da sotto le ciglia,
le sopracci-glia e i lucidi capelli castano scuro. Cercavo di respirare, di muovermi, di prendere la penna,
ma non ci riuscivo.
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